Di film con sceneggiature da fumetto non è che se ne siano visti pochi: anche quando non sono adattamenti di storie e personaggi già esistenti, molti film d’avventura non sono che fumetti recitati da gente in carne ed ossa. Un esempio? Il filone lanciato da Henry Jr. "Indiana" Jones, che si riallaccia alla letteratura pulp di inizio secolo: non sarà fumetto ma ha un antenato in comune (un po’ come noi homo sapiens e gli orang-utan). E poi c’è sempre Darkman di Raimi.

Ma Unbreakable guarda il fumetto dalla parte sbagliata, col titolo in basso e la costa sulla destra. Se il soggetto, la trama, è quella di un fumetto (speciale Numero Zero: le origini di Green-Football-Hooded-Security-Unbreakable-Bald-Sleepy-eyed-Man!), la sceneggiatura e i dialoghi sono quelli di un film: i tempi sono dilatati, le battute telegrafiche, i silenzi grevi e prolungati. Un fumetto con una splash-page ogni tre tavole, pagine e pagine senza un baloon, piatta e banale vita famigliare intervallata a poche avventure, interi numeri senza uno scontro o un confronto o una sorpresa o che: chi lo comprerebbe? E chi si metterebbe a far la fila per un film che sembra un fumetto, con le inquadrature incorniciate e riquadrate come vignette, le pose statiche anche nelle scene d’azione (la comparsa di Orange Man dietro la tenda è un piccolo gioiello), colori stampigliati addosso ai personaggi come didascalie, chiaroscuri violenti al limite del danno alla retina, villain logorroici i cui eloquenti, polisillabici macrovocaboli trascendono qualsivoglia comune fraseggio quotidiano?

Shyamalan rovescia tutti i luoghi comuni del film-fumetto, e ci riesce bene. Il risultato è un film che si lascia gustare una scena alla volta, senza fretta. I personaggi sono dipinti con pochi colpi di pennello, delineati e caratterizzati, unici come ideogrammi (o ieroglifici, se preferite). Le emozioni scivolano fuori dallo schermo, complice l’ottima colonna sonora di James Newton Howard (ma va a Shyamalan buona parte del merito: riguardatevi la scena della libreria, densa di frustrazione e depressione fin quasi a dar fastidio). I ritmi sono quelli della vita reale, del quotidiano: lasciano allo spettatore il tempo di entrare nella storia, di coglierne i dettagli, senza che si debba ricorrere a dialoghi didascalici (salvi i voiceover stupidamente imposti dall’adattamento italiano per tradurre l’inglese scritto) o zoomate e carrellate pacchiane.

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