Maison Ikkoku è proprio questo: è la struggente attesa tra un incontro ed un altro, l'improvvisa gioia per un fugace contatto, la tremenda delusione per un tono sgarbato. Descrive in modo mirabile quello che centinaia di film e romanzi non sono riusciti a cogliere: l'essenza dell'innamoramento. Quella fase cioè in cui si è in balia di sentimenti contrastanti, in cui ci si deprime e ci si esalta in pochi secondi, in cui si è preda di un groviglio di emozioni quasi sempre irrazionali.

Potranno forse far sorridere le troppe titubanze di Godai, senz'altro più comprensibili al lettore nipponico che a quello italiano. Senza voler scendere in generalizzazioni, che in quanto tali lasciano sempre il tempo che trovano, è palese una diversità di fondo tra un italiano, comunicativo fino alla sfacciataggine, e un giapponese, molto più silenzioso ed introverso.

Non a caso uno dei più famosi registi asiatici, Wong Kar-Wai, nel suo ultimo film In The Mood for Love ripercorre proprio tali tematiche, che filtrate dalla medesima sensibilità orientale inevitabilmente riconducono a dinamiche simili. Anche i suoi due protagonisti infatti si amano ma non riescono mai a dirselo; ne viene fuori un film fatto di silenzi che valgono più di mille parole e di rare parole che restano sospese nell'aria assumendo i contorni di sentenze.

In Maison Ikkoku si respira la stessa atmosfera evocativa, sapientemente miscelata però ad una vena comica che mai manca nei lavori della grande Rumiko Takahashi. Pathos e umorismo si alternano con ritmo perfetto, in maniera tale che il primo non soffochi il secondo, togliendoci la voglia di sorridere, ma che neanche il secondo invada lo spazio del primo, ridicolizzando le reazioni emotive dei protagonisti.

Prova emblematica di tale equilibrio ne è proprio l'ultimo numero, quando la bellissima e commovente frase di Kyoko: "Ti prego... vivi un giorno più di me," viene immediatamente bilanciata e stemperata dalla simpatica invadenza del padre ubriaco, appollaiato sulle spalle di Godai.

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