Vetri Vuoti, Viola
di Faith Persiano

Il silenzio, intorno, di un buio giovedì sera. L'ingenua malignità delle chiacchiere paesane pronta alla sepoltura tra fredde lenzuola azzurre. Notte umida, questa.
Morivano uno a uno quadratini di luce diffusi sul pendio: uno a uno tranne Uno. Una saletta di una bettola di campagna; a dieci minuti dalla prima cintura, dove una coltre di fumo premeva con forza sul dorso dei presenti, spessa come una piccola nuvola privata. Quattro uomini con bastarde facce scavate si dedicavano ad un pool 8 sul tavolo da biliardo, fumando molte sigarette e bestemmiando senz'alcun rispetto del brusio di sottofondo. Buona parte della nebbia fitta nasce lì, in clima di blasfemia. Quattro crani venuti a noia, in avvicinamento al suolo.
Dietro il bancone in legno massiccio il barista serviva drink e birre spolverati di cenere, fumando sigarette anche lui, con occhi attenti allo schermo verde del televisore. La speranza, persa tra le spirali di fumo azzurro, che nel recupero cambiasse qualcosa. In un angolo nascosto dalla sporgenza del bancone un tavolino sosteneva la testa chinata di un uomo solo. Quasi invisibile al resto del locale non fosse per il continuo andirivieni del barista, in continuazione richiesto da quella parte, e per la grossa schiena che debordava dallo sgabello.
Una compagnia di ragazzi dei dintorni occupava un consistente numero di tavoli, e si incontravano sopra colonne di boccali svuotati alcuni sguardi carichi di tensione sessuale non ancora consumata. Gli schiamazzi alti contrastavano il peso della somma degli anni. Nulla rispetto al casino bestemmiato dai giocatori di biliardo.
Una donna dai fianchi enormi passava ogni dieci giorni a sostituire i portacenere colmi, per riversarne il contenuto in un sacco nero dall'odore disgustoso, appoggiato accanto alla porta secondaria. Il fetore -compreso nel coperto- aleggiava in metà locale, forte dell'abitudine degli avventori, che dopo mezz'ora avevano smesso di boccheggiare in cerca di ossigeno tra gli spifferi delle finestre.

La partita terminò dopo pochi minuti.
Troppo pochi a detta di tutti.

L'uomo del tavolino nascosto sbatté forte il pugno sul lembo di bancone cui arrivava, e il barista cominciava a spazientirsi dei suoi modi maleducati.
- Cazzo, Walter, adesso cominci a farmele girare!
Prese un pintone da due litri di barbera e lo appoggiò brusco nel cantuccio.
- Quando hai finito questo vedi di alzarti e andare a dormire fuori di qua, o vedi che tiro fuori il bastone.
L'uomo alzò la testa e guardò di traverso:
- Non farmi incazzare, Lillo.
Spezzo te, il bastone e la culona. Cambia il sacco del morto, piuttosto.
Non senti che puzza di merda?
-un attimo di brusio quasi vergine-
- GIUSI!
GIUSI! VIENI QUA!
La donna di casa arrivò dondolando tutto il suo adipe.
- Dimmi.
- Non senti che puzza di merda c'è qui dentro?
Vai a buttare il sacco.
Un sorriso traforato in risposta,
- Vedi di muoverti!
poi Giusi si avvicinò al sacco e se lo caricò in spalla, gesto maldestro, ma obbligato; per disdicevole risultato: la diffusione dell'odore nauseabondo per tutto il locale. Vista così pareva ancora più grossa: un aumento della cubatura dei suoi fianchi di un glorioso cinquanta per cento. I ragazzi seduti al centro del locale sfoggiarono smorfie di disgusto sopra i colletti coreani, e le ragazze si portarono la mano al viso, dimenticando per un attimo la borsetta sul tavolo. Avviandosi all'uscita posteriore con passo traballante, la culona, sacco in spalla, si diresse verso il cassonetto che stava nel cortile. Uno sguardo fuori,
quasi presentito,
e passò la porta. Questa, almeno, era la sua intenzione. Ma rimase incastrata nello stipite. Uno degli attenti osservatori della partita si improvvisò attento estrapolatore della scena in questione, sobbarcandosi l'onere di condividere con gli altri avventori tale meraviglia. Puntò l'indice verso l'enorme massa organica, e proruppe in una fragorosa risata. Due bruschi strattoni e Giusi riuscì a passare oltre. Un'onda di risate si sollevò da tutto il posto, e lei si voltò a guardare dentro con espressione altezzosa.
Lillo scosse la testa, e uscì da dietro il bancone del bar per andare a spalancare le finestre. Da oltre un minuto alcuni uomini sbattevano le mani sporche di calce sul legno duro per il gusto di prolungare il loro divertimento.
Lillo non era contento.
Uno, quando fu tornato dietro il pulpito, chiese:
- Lillo, ma come fai di notte? Come fai a trovargliela?
Nuova ondata di ilarità.
- Lillo, spero che non ti monti sopra lei!
Un altro:
- E t'ho visto zoppicare un po', infatti!
Lillo era stufo marcio di essere preso per il culo.
Dapprima aveva ben pensato che una donna così non gliel'avrebbe mai portata via nessuno, e aveva convenuto che questa era un'ottima cosa. Ma, da quando lei aveva insistito per lavorare nella trattoria, ostentando con sorrisi rovinati la sua imbranatezza, non gli era data tregua. Nessun orgoglio; per unica ambizione una vita tranquilla. Ma essere la metà passiva degli sfottò piace solo a chi non sa di esserlo.
O a chi se lo deve far piacere.
Lillo era stufo marcio della sua donna.

La televisione spenta, il biliardo sempre occupato e vassoiate di birra in passerella sulla moquette. Sei degli uomini al bancone improvvisarono un triangolare di briscola a quattro, consapevoli del bisogno di surrogare la gioia della vittoria con un po' di sana competizione da osteria, buona per curare ogni asma esistenziale.
A bassa voce, dall'angolo nascosto, un lamento:
- Quella cazzo di finestra deve restare aperta.
L'aria pungente della collina in novembre mortificava sempre più il brusio e gli sforzi di tutti, e vanificava la spesa della sera. Pochi soldi per un po' di nebbia anche dentro la testa.
Quella fuori la offre la casa.
- MA CHE POOORCOOO!
Una delle ragazze ai tavoli centrali si alzò di scatto dalla sedia, con le labbra artificialmente divaricate. Infilò le dita in un posacenere e, priva di ogni femminilità, prese a schiccherare mozziconi in faccia a Leo, ventenne dal pelo fulvo rinomato in paese per il primato nel rutto.
Grandine di mozziconi.
- Bleargh!
fece Leo mostrando che Lui masticava tabacco da ore.
- Fai schifo!
Rispose lei strofinandosi le dita nere sulla salopette di nero jeans, reliquia accompagnata a scacchi mai più visti in giro.
- Ma pensa, saremo mica in due?
Lei fece il gesto di sputare, e diede 'il giro della morte' alla sua pinta.
- Fa un freddo del cazzo, qui!
Quattro passi indietro e dritta alla finestra.
Sete d'oblio.

Vicino al tavolo da biliardo solo pinte consumate.
- Guarda 'sto castello!
- Di', se lo fai offro il giro a tutti...
Entusiasmo.
- Altrimenti?
- Offri tu e vai pure al bancone a prenderle.
- Affare fatto.
Seduto e distratto, uno dei quattro aveva seguito con interesse l'insolita grandinata di poco prima. Da dietro la sua stecca fissò il suo punto focale oltre il legno tra le sue mani. Non quello della sua vista.

- Fa proprio freddo, mi sa che è finita la pacchia, ragazzi!
Arriva l'inverno, mi sa.
Da in mezzo alle teste dai molti capelli arruffati si levò una voce:
- C'ho chi mi scalda meglio della stufa, io!
e il suono di una gran pacca su un sedere sotto il tavolo.
Un'altra voce:
- See, stai attento ai calli, va', che se ti graffi mica lo puoi bendare!
La schiccheratrice appoggiò il seno sul davanzale, e si concesse di inalare un po' del pungente odore della sera. E si fermò lì un po'.
L'aria fresca stava risvegliando le coscienze dei presenti spersi presso la finestra, e gradualmente calò il silenzio che accompagna ogni ritorno. L'uomo della stecca fissava da qualche metro di distanza il simmetrico culo della ragazza, e in un attimo decise che voleva suonare il mandolino, senza verso d'aspettare il freddo e il risveglio.
Con
passo
incredibilmente
lento
si diresse lì e ci si appoggiò sopra.
Così,
per farle sentire il legno tra le sue gambe.
Lei si voltò di scatto con la bocca aperta per la sorpresa, e una lingua fetente non si fece scappare l'occasione di penetrarci. Il silenzio fu appena rotto dagli sforzi di lei di liberarsi, ma adesso non era più triste, né naturale: era una quindicina di sguardi imbarazzati.
Leo si alzò e agguantò l'unica bottiglietta di birra sul tavolo. Gli uomini del biliardo, scordati castello e giro, cominciarono a scrocchiare le nocche. Goffi e bastardi, si avvicinavano un passo alla volta alla finestra. Per pareggiare i numeri si alzarono anche tre amici di Leo.
- Li vuoi ancora tutti e quattro i tuoi denti, quando torni a casa, eh?
La schiccheratrice fu libera in un attimo e il suo stupratore si gonfiò come un gatto vedendo la bottiglia.
- E che minchia ci vuoi fare con quella?
- Te la infilo per supposta, eh?
- O magari la tieni buona per portarla a casa...
La distanza tra loro e da qui al massacro era sempre minore.
- Ma vaffanculo!
- Vieni, che te lo mostro io come si fa a spaccare i denti!
Leo saltò addosso all'uomo e lo buttò a terra, cercando ripetutamente di colpirlo sulla testa con la bottiglia, e riuscendoci un paio di volte, ma senza che questa si rompesse.
La bottiglia, s'intende.
Il duro legnoso cercava di divincolarsi per sferrare un gran cazzotto, ma per lo più colpiva l'aria, o la lunga chioma rossa sopra di lui. Provò allora con una testata, e andò a segno. Ma Leo l'Uomo Che Impara In Fretta gli impose una mano sul petto per tenerlo a debita distanza ed avere un bersaglio fermo su cui frantumare la bottiglia. La schiccheratrice urlava come una pazza e cercava di prendere a calci quello giusto dei due.
Ma aveva il cinquanta per cento di probabilità di successo, e la statistica, si sa, deve essere qualcosa tipo un po' opinione e un po' no. E così non solo il bastardo del biliardo, ma anche Leo, il giorno dopo, avrebbe avuto diversi lividi sui fianchi.
Poco più in là, gli amici di Leo si azzuffavano feroci e confusi con gli uomini del biliardo. Tutte e tre le stecche erano già spezzate, e il tizio che avrebbe passato un caldo inverno ne aveva due pezzi in mano; da buon giullare iniziò a farle roteare come nei film pseudogiapponesi di kung-fu o wu-shu o dryut-cha o roba così che si vede di volta in volta in televisione. Sta di fatto che così facendo si era completamente impegnato le mani e aveva lasciato bassa la difesa. Libero accesso per un calcio che lo sorprese in pieno viso, fratturandogli il naso. Cadde all'indietro zampillando sangue, con lo sguardo sbarrato e un'evidente difficoltà respiratoria, per finire tra le braccia delle altre ragazze, che erano indietreggiate il più possibile, e, addossate al muro, osservavano terrorizzate.
Gli altri due erano impegnati in un groviglio indistinto di teste rinculanti e braccia e pugni apparentemente senza un giusto corpo padrone, e, intralciandosi a vicenda, disegnavano buffe geometrie.

Nell'angolo nascosto, Walter si era girato a guardare comodo la zuffa, sgrat-grattandosi generosamente i cosiddetti. Con la mano sinistra riempiva il bicchiere e lo portava alla bocca per vuotarlo. Per poi riempirlo e vuotarlo ancora.

D'improvviso, in mezzo a tutti quei calci a vuoto e ginocchiate alle palle, che nella migliore delle ipotesi riuscivano a paralizzare qualche muscolo in tensione, si intravide sventolare un coltello a farfalla, souvenir passato inosservato per la Svizzera.
Lillo intervenne prontamente con una potente bastonata sulla mano delinquente, e poi stette minaccioso con la grossa verga tra le mani a fissare tutti quei tizi.
Assestò per sicurezza ancora un po' di legnate qua e là.
- Fuori dalle palle, Lillo!
- E no!
Fuori dalle palle voi! e neanche in cinque secondi, che se no chiamo i carabinieri!
Alcuni si fermarono a guardarlo, altri ancora si ringhiavano addosso. Poi tutti si voltarono a guardare Leo, che adesso aveva nettamente la meglio e stava martellando di pugni il volto dello sventurato sotto di lui.
Destro,
sinistro
dritto
rovescio
destro destro destro
sinistro andata e ritorno.
- Basta, Leo, c'ha la faccia fracassata!
- Basta, Leo!
- Basta!
Anche la schiccheratrice grunge.
Leo si alzò, e si alzò con un po' di aiuto e tanta fatica anche l'uomo di legno ammaccato.
Giusi era rimasta invisibile -incredibile, con quella betoniera- per tutto il tempo, e solo ora si faceva viva. Per chiudere la finestra.
- Quella cazzo di finestra deve restare aperta!
intimò Walter da lontano e attendendosi di essere ascoltato. Ma l'atmosfera era ancora piuttosto tesa, e comunque Giusi non si era mai dimostrata una cima di attenzione.
Così chiuse la finestra.
- Brutta vacca! Riapri subito quella cazzo di finestra!
All'uomo tumefatto e sanguinante capitò di incontrare con lo sguardo ormai inconsapevole quello di Leo il Massacratore, e lo colse un nuovo impeto d'ira. Riuscì ad assestare una gomitata sotto il suo mento, e lo privò della facoltà di parola.
E così la finestra rimase chiusa.
La lotta stava per ricominciare -questa volta in piedi- quando l'uomo enorme passò in mezzo ai due, afferrandoli per il colletto e incidentalmente scaraventandoli a quattro metri di distanza. Uno a destra e uno a sinistra.
Proseguì il passo verso la donna come se il getto dell'idiota non gli fosse costato sforzo alcuno, e sovrastandola per massa, fervore alcolico e bruttezza, le urlò in faccia:
- RITARDATA DEL MIO CAZZO! IN CHE LINGUA TE LO DEVO DIRE DI LASCIARE QUELLA CAZZO DI FINESTRA APERTA?
LO VUOI CAPIRE O NO CHE QUI DENTRO C'E' PUZZA DI MERDA?
SARA' IL TUO CERVELLO?
SARA' IL TUO GROSSO CULO SPORCO?
E' RIMASTA PUZZA DI MARCIO PURE DOPO CHE HAI BUTTATO IL SACCO.
LASCIA
QUELLA CAZZO
DI FINESTRA
APERTA!
Per la terza volta fu silenzio, dettato ora dalla paura, e presto rotto dal pianto di terrore di una donna troppo semplice anche per un posto insignificante come quello. Lillo si voltò a scrutare il tavolino nascosto dietro l'angolo del bancone. Poi tornò a guardare Walter:
- Hai finito il vino. E' meglio che te ne vai a casa anche tu.

Il parabrezza era accarezzato da una patina ossessiva di umidità, compagnia obbligata delle serate su alla trattoria. Walter, appoggiato allo schienale, perso in tutta la comodità che riusciva a trovare un uomo della sua stazza in un'auto di medie dimensioni, lasciava libertà ad un dito indipendente di disegnare sul vetro opaco oggetti che gli passavano per la mente: quello che inizialmente avrebbe dovuto essere un viso si perdeva totalmente per somigliare poi un po' a una tartaruga; e appena il dito si concentrò per definirne meglio i contorni, d'improvviso non fu più nemmeno quello.
Ci sono momenti in cui vorrei saper disegnare, o qualche altra cosa. Per poter fare qualcosa di bello, poter guardare quel qualcosa e dire: ehilà! Questa qua è roba mia, l'ho fatto io! E' roba che ho CREATO io: che non è più solo inchiostro e carta, non più vetro e acqua. E' la mia non-tartaruga.
Si voltò poi a scrutare le luci attraverso le finestre della trattoria: realizzò e convenne tra sé e sé che anche il posto più tranquillo e solitario della provincia era sfumato. Mai più come prima: vino, carte, silenzio, e urla solo per i novanta minuti giusti. In un mondo incazzato con lui, lui che era incazzato con tutti, non era riuscito a trovare posto più rilassante di quello.
Non sarebbe stato più lo stesso. Mai.
Le sigarette gli avevano raschiato la gola a vivo: chiedeva un po' di anestetico vecchia maniera. Così, un ultimo sguardo alla sua creazione amorfa, con fatica aprì la portiera, inspirando avidamente aria fredda. che stringeva a morsa i bronchi. Un colpo di tosse e si diresse di nuovo verso la bettola, Lillo, la culona e il sacco putrido di cui si erano ormai liberati.

- Entra, entra. Tanto lo sapevo che tornavi...
Con una sigaretta in bocca, Lillo il Saggio stava asciugando l'ultimo carico della lavastoviglie.
Walter fece qualche passo e si posò pesante sullo sgabello di fronte a lui.
- Ma perché lavori tanto? Guarda che schifo di posto che c'hai! E sei sempre qui a lavorare come un negro. Davvero, amico mio, non capisco mica...
Un bicchiere sull'asciugamano aperto e steso. Un altro tra le mani certosine.
- Mi spiace per la tua donna. Ho sbottato brutto
Anche Walter accese una sigaretta, con tutto il fastidio che ne conseguiva per la sua gola.
L'indaffarato asciugabicchieri lo guardò. E finalmente disse.
- Questi bicchieri - parole stanche- sono l'ultimo lavoro che faccio prima di andare a dormire.
Se lasciassi la macchina in funzione e me ne andassi a dormire fregandomene, l'acqua colerebbe lungo il vetro durante la notte.
Via un bicchiere sotto un altro.
- E allora?
Walter fissava il cesto pieno di stoviglie fumanti.
- Eh, vedi che se la notte l'acqua cola, io domattina ho dei bicchieri con tracce di acqua.
- E allora?
- E allora hai presente la faccia della gente che se ne accorge quando ce l'ha già in bocca? Quello ti guarda storto, e tu sai che domani avrai un cliente in meno. Se queste cose le lasciassi fare a quel culo con due gambe che dorme di sopra, avrei chiuso baracca e burattini da un po'. Ma siccome senza questo "schifo di posto" non saprei che cazzo fare, vedi che la cosa mi diventa importante. Mi sono rovinato i polmoni e consumato le mani in fabbrica per vent'anni, per comprare questa bettola. Quindi vai affanculo, e non chiamarla più "schifo di posto".
Dal suo sgabello, Walter indicò una bottiglia di whisky. Ogni uomo ha un obiettivo.
Lillo accennò con la testa che poteva prenderselo.
- Eddai, Lillo! che sei permaloso oggi...
Prese la bottiglia e due bicchieri.
- 'Scolta, non me ne frega niente. se insulti mia moglie, dico. Alle persone stupide come lei la cosa non fa né caldo né freddo. Probabilmente se n'è già scordata.
Shhhh -con il dito sulle labbra-
Senti? Russa come un treno.
Ad entrambi venne di soffocare una risata. E fu finalmente un po' di complicità.
- Ma questo locale qua,
quello sgabello su cui appoggi le chiappe tre volte a settimana,
questa qua è tutta un'altra roba. Gli voglio bene, e allora anche le cose stupide diventano importanti. Io me ne voglio andare a letto senza pensieri. Voglio che tutto sia a posto. Chiaro?
Walter stava versando due bicchieri.
- Chiaro!
- Salute!
- Salute!
Lo straccio strideva contro il vetro sgrassato, e le finestre ancora aperte risucchiavano via i vortici azzurri che salivano dai posacenere. Gli uccelli si apprestavano a cantare sugli alberi, e il gallo stava già timbrando il cartellino.
In realtà canta molto prima delle cinque di mattina.
Forse solo da queste parti,
forse solo in questa storia,
lavora di notte.
Il secondo mestiere più vecchio del mondo.
Una cosa normale, in fondo.

"Ogni volta che la guardo, Lillo, ogni volta che sento il suo profumo.
Mai successo niente di simile in vita mia. Ho vagabondato da giovane per 'sti paesi, su e giù per le colline, cercando... Boh? Di ottenere il rispetto della gente, credo. Ho fatto zuffe con bestie di ogni genere, per i motivi più inutili, solo per la soddisfazione di sentirmi...
un guerriero.
Poi non mi è bastato più sentirmici, e ho desiderato di sentirmelo dire.
Che ero forte. Che picchiavo duro. Ma non sono mai stato capace di vedere la differenza tra il rispetto e la paura, e ho esagerato troppe volte, come un idiota. Cedendo alla violenza per lussuria.
Calpestando
la mia dignità
prima ancora di quella degli altri. Una trappola, il mio mondo, e non solo per me.
L'ho avuta che era ancora una bambina, ed io grosso quasi come adesso.
Lei fragile, io goffo. Un elefante in una cristalleria, amico mio, nient'altro.
Lei è fiore che sboccia in inverno, calda come il sole.
Ha il dono del silenzio: se le va di non parlare tace anche il mondo attorno. I suoi occhi, semmai te li concede, allora squarciano veli vecchi d'anni, spostando assi tarlate e strappando ragnatele.
Rimane solo il suo sguardo
e tu,
finalmente capace di capire. Che niente è andato per il verso giusto. Che hai sprecato i giorni a venire.
E se ne va e quel che resta è il buio anche di giorno, e i conti che devi fare con te stesso, con i tuoi errori, con la vita che fai, ripulita di ogni menzogna, consapevole o meno. Scheletrica e ipocrita.
E la scelta:
continuare o ricominciare?
Continuare cosa? Ho già scordato.
E ricominciare da dove? Mi sembra che sia sempre stato oggi. Sempre così.
E' l'alcool, vecchio amico, che mi fa sragionare; sarà forse la stanchezza, la nausea di restare e anche quella di tornare. Ho voglia di parlare ancora un po' e allora resisti, per favore, e ascolta ancora le parole..."
...che non mi appartengono.
E' l'alcool, amico mio, che solletica le idee, e tutto, solo per un istante, va ad incastonarsi al posto suo. E l'istante dopo è tutto effimero, e hai solo un gran mal di testa.
E un gusto salato in bocca, un po' diverso da quello solito.
- Eh, Lillo, che mi dici, sono un bel rottame, no?

Walter aprì gli occhi a fatica, e si accorse che aveva parlato da solo, sempre che in effetti avesse parlato. Il mal di testa dilaniante e ben focalizzato, e la vista appannata, scese carponi dalla macchina e si trascinò a fatica qualche metro più in là. Alzò la testa e vide il muso dell'auto schiacciato contro un muro. "Merda, che brutto parcheggio. Merda che botta!". Restare lì pareva la cosa migliore, la più naturale, ma doveva aver fatto un bel casino, e qualcuno si era certo svegliato; così cercò di alzarsi, girandosi prono e puntando i piedi, scivolando parecchie volte, e barcollando poi precario nel suo equilibrio. Vetri minuscoli del parabrezza e cocci più grossi della bottiglia che si era portato dietro dalla collina piovevano a terra dal suo giubbotto, pochi alla volta, come se non se ne volessero andare. -Amici!- Riuscì lentamente a camminare un paio di isolati, arrivando in un vicolo scuro. Confuso, la cosa più ovvia era cercare di riprendersi, e si lasciò andare a terra con tutto il suo peso, con tutti i pezzi di vetro che aveva addosso, che rimbalzavano attorno. Sembrava un grosso manzo surgelato.
E pensò per un attimo a suo figlio, alla vita che vorrebbe potergli garantire, la vita che poi lui avrebbe voluto? Piccolo stronzetto. Oggi voleva picchiare ME! Alla sua corporatura minuta, al suo sguardo tranquillo, e lo odiò perché non era come lui, e perché magari non era suo figlio, quel bastardello. ed ebbe nausea di se stesso perché non sapeva come avrebbe voluto che diventasse. Non sapeva neanche se voleva ancora respirare. Ma -smettere- che fatica! E poi più niente.

- Ehi! Oh! E' casa mia questa, vattene! Oh! Vattene!
Qualcuno gli stava tirando calci in testa,
ma piano.
Non era comunque il caso. Gli riuscì di rotolare un po' in là.
- Che vuoi?
- Che vuoi tu! E' casa mia questa.
(Ancora buio, ancora notte. Bene, forse riesco ad arrivare a casa)
- Non farmi incazzare che ti prendo a botte
- Tu a me? Ma ti sei visto?
- Ti ho visto a te, sì, e sei uno straccio d'uomo. sei un barbone...
- Oh, non mi fai mica paura, sai?
- No?
Walter si alzò e caricò, lento, un colpo allo stomaco. Riuscì a piazzarlo giusto, solo un po' meno forte del previsto, perché il barbone, seppur lento, aveva avuto il tempo di spostarsi. E comunque non era una carezza, e l'uomo cadde a terra, semincosciente. Rimase lì a guardarlo, chiedendosi se era fermo o stava indietreggiando, e dopo un attimo eterno ebbe per risposta il muro che gli si appoggiava sulle spalle. Poi cercò aria, per riprendere un po' di controllo, e trovando però soltanto l'odore dell'immondizia abbandonata sul marciapiede, e l'umido di fogna che esalava dal padrone di casa. Pensò di frugargli nelle tasche, e vi trovò una bottiglietta di liquore. Tenendola alta se lo versò direttamente in bocca, attento a non toccare il vetro con le labbra. Il liquore faceva schifo, e faceva male alla sua gola da trentuno sigarette, così appoggiò la bottiglia a terra, accanto a innumerevoli altre, lasciate lì da chissà chi. Sedette a terra, con la schiena e la nuca appoggiate al muro, in cerca di riposo: non c'era verso di muoversi ancora per un pezzo. Fu adesso, in netto ritardo rispetto agli orari della natura animale, che il sole decise di affacciarsi sulle strade, pervaso di rosso procace, e un fascio di raggi investì le bottiglie verdi accanto a Walter, per terra, riflettendosi poi su tutti i vetri che aveva ancora addosso, e circondandolo di triste luce viola.
E pianse.
In cristalli capaci di incidere un viso di pietra.

Il ragazzo era immobile, il viso screpolato dalle lacrime, le tempie pulsanti, in una scomoda postura, e meditava vendetta. Senza chiarezza nella sua mente si figuravano modi diversi in cui lo avrebbe voluto vedere. Morto, comunque: occhio per occhio, o nella più grande umiliazione, di botto o con lo sguardo terrorizzato. Ma come? Come? Si guardò attorno nella stanza a soqquadro, badando bene a non voltarsi di là, là dove non poteva, cercando di concentrarsi. Doveva trovare un modo di farla finita, come nei film, e poi di riposarsi un po', finalmente, di smettere di avere paura, che non ce la faceva più, e adesso doveva finire. Adesso basta. Basta. Come, come, come fare? Tutta la televisione e le avventure da cui si esce con il colpaccio di genio: ricordarne una; ma neanche una che serva. Non per chissà cosa, ma perché nessuno spiega mai come si fa, cosa ci sta dietro? Come si fa un esplosivo in casa, o una pistola con elastici e mollette? Li fanno, e pare facile, no? e nessuno sa come.
Poi lo vide: così vicino!
Solo
un
piccolo
sforzo...

L'alba già giorno, le automobili lungo la strada cominciavano a lasciar intravedere gli interni. La città ancora addormentata pronta a dare qualche scossa, rigirandosi nel letto in cerca di qualche lembo ancora buio; i rifiuti cominciavano a puzzare.
E Walter arrivò finalmente a casa.
Con la testa pesante, ciondolando, intontito dal sonno, dall'alcool e dalla botta contro il parabrezza. E la porta di casa che non vuole inghiottire le chiavi.
Da-haiiii! Urgh.
La puzza. Di tutta questa vita di merda mi ricorderò per sempre la puzza. Quella che c'ho addosso, e che non se ne va. Quella che c'è da qualche ora in questa casa. Che sono uscito per non sentire, per dimenticare, per capire un po' che cazzo fare. Per capire se vale la pena andarsene, o restare. Andare o restare dove, poi? se non hai un posto, se non lo vuoi, in fondo.
La poltrona. Dov'è la mia poltrona? Che è quello che mi serve, sì.
Walter si sfracellò sulla poltrona sfondata. E dopo un minuto che forse era un anno aprì gli occhi. Eccolo lì. Il ragazzo. Ancora dove l'aveva lasciato, ovvio. D'altronde ci andava tempo, per mettere tutto un po' in ordine, per licenziarsi e andarsi a fare l'ultima bevuta su alla bettola. L'ho dovuto fare, insomma: avrebbe potuto urlare, per far venire qualcuno, e invece così ho ancora un po' di tempo.
Ed eccola lì. Maria. Troia mangiavita.
La porta aperta del ripostiglio. Viola, il colore del livido grosso un pugno sullo zigomo destro; viola un po' dappertutto, in realtà, ma sullo zigomo destro era il segno dell'ultimo cazzotto. Il corpo scomposto, non aveva avuto il coraggio di toccarla, dopo. C'era stata grande disperazione, dopo, e il ragazzo aveva cominciato a dar di matto. Voleva picchiare uno grosso come me, cazzo. Ma hai visto, quanto sei magro? Una femminuccia. Lascia stare. Però poteva urlare, e chiamare qualcuno, e sarebbe stato un casino, e io non voglio andare in carcere. Molto meglio scappare. Il modo, manca. Non ho deciso il modo: se farla finita una volta per tutte o cercare di nascondersi.
Tutta colpa tua, Maria.
Mia splendida Maria, femmina di rara bellezza, dai seni appuntiti e marmorei, e quei fianchi larghi da fattrice, Maria, quanti figli avrei voluto. Una bambola tra le mie braccia, Maria.
Maria, il cadavere di mia moglie nel mio sgabuzzino, la fine della mia vita inutile. Motore di questa puzza infernale che mi ricorda che ho poco tempo e tanta confusione in testa.

E' ora di concentrarsi.

Il ragazzo cercava di non incontrare lo sguardo di Walter, temendo che tutto andasse in malora. Voleva finalmente vendetta.
- Che fai se ti tolgo quel calzino dalla bocca?
Nessuna risposta. Non voleva farsi prendere dall'ira. Non ancora. E allora la tattica più naturale è cercare di escludere tutto e concentrarsi sul momento. Ma il sangue ribolle, e non ascolta alcun padrone.
- Se provi a urlare ti do un pugno in testa e ti lascio lì.
Capito?
Nulla.
- Capito?
Allora lo prese per il collo con violenza, e il ragazzo annuì, sapendo che un po' lo doveva assecondare, se voleva che poi andasse tutto liscio. E allora annuire, e poi vedrai, brutto stronzo! Vedrai se non te la faccio pagare, questa volta.
Walter cercava gli occhi, gli occhi spauriti che era abituato a vedere, che non poteva sopportare nel sangue del suo sangue. Ma inutilmente: legato al termosifone, giovane crocifisso metropolitano, suo figlio lo osteggiava con indifferenza, guardando altrove, per non scoprirsi ancora. Questo lo mandava in bestia: chiedeva attenzione e la pretendeva. Parlava la sua massa per lui, da sempre.
Gli assestò un sonoro schiaffone, e lui non lo vide, ma dovette aggrapparsi ad un elemento del calorifero per non essere sbalzato via; ma questo non gli diede soddisfazione alcuna. E allora un altro, bello e pronto, in dirittura d'arrivo, la mano già alta. E si fermò. Perché il ragazzo adesso lo guardava, e stavolta negli occhi, con fermezza. Con occhi che non erano suoi, che non erano quelli di un quindicenne. Che nessuno era mai stato capace di porgergli dopo.
Dopo essere stato menato, s'intende.
Indietreggiò, stupito, e ricadde sulla poltrona.
- E allora, cosa vogliamo fare?
Che sguardo; che occhi! E' un guerriero, adesso. Un combattente, finalmente.
- RISPONDI!
- Che cosa vuol dire?
- Cosa intendi fare, eh? Mi guardi come se volessi ammazzarmi.
E' così?
- Sì. E' così.
- Ma no!
E come, come intendi fare? Vuoi prendere a botte il tuo vecchio papà? Vuoi picchiarlo? Ma guardati! Non lo vedi quanto sei debole? E sei legato, poi, e se urli te ne faccio pentire.
- Bastardo!
- A ME? BASTARDO A ME? PICCOLO STRONZO...
Walter tentò di alzarsi, ma adesso era tardi (o presto, dipende...) e la poltrona era così comoda, con la sua forma in negativo. E rinunciò, sbuffando.
- Sei vecchio, e flaccido, e non vali niente.
- Sì, continua, tanto non m'importa. Tu sei lì, legato, e non vali una cicca, e parla pure che tanto non ti ascolto.
- Sì? Beh sei un grosso maiale schifoso...
E continuò, il ragazzo, a insultarlo sempre più pesantemente. Ma davvero non lo ascoltava il vecchio Walter. Vecchio, adesso, sì, vecchio del peso degli anni e delle colpe, e dei reati e dell'ignoranza appiccicata addosso come questa puzza, che si fa sempre più insistente. Maria, viola e rotta, e sacrificata in quel buco lurido. Ti amo ancora, bambolina, ti amo per sempre. Ma lo sai, lo hai sempre saputo, che quando mi arrabbio non mi controllo, e che mi arrabbio facilmente, per Dio. E allora perché, perché tradirmi? Che faccio, adesso, Diavolo? Me ne vado? Dove vado? Dio, Maria, non ci ho più visto, e tu ti sei piegata innaturale sotto i miei pugni, e davanti agli occhi del ragazzo. Che occhi, piccola, quelli di un ragazzo che vede morire la madre a quindici anni! Come i miei, quegli occhi, come me, tesoro. Il ragazzo, è tutto suo papà.
- ...E TU NON SEI MIO PADRE!
- Cosa? Cosa hai detto?
- Non sei mio padre! Guardati, sei grosso come un bue. Guardati, vecchio coglione, e guarda me, adesso. E allora? Allora che mi dici?
- Piccolo figlio di putt...
Walter tentò di alzarsi di scatto, ma incespicò. Voleva spiegazioni. Se il ragazzo sapeva qualcosa, lo doveva sapere anche lui.
Maria,
puttana.
Quante volte?
Il ragazzo lo vide rialzarsi, e gli sfuggì un sorriso terribile. Freddo. Con uno strappo liberò entrambe le mani dai legacci, che caddero a terra con le estremità sconnesse e bruciate. Forte della lentezza del corpo goffo e malridotto di Walter, agguantò un attizzatoio del camino appoggiato poco prima al termosifone, e sferrò una sibilante botta sul cranio già ammaccato di suo padre. Walter cadde a terra sanguinando, e uno spruzzo di saliva rossa gli uscì dalla bocca.
- MAIALE! MAIALE! MAIALE!
La senti questa puzza, maiale? Lo senti questo odore? Sei così sbronzo che non la senti, vero? O è il tuo odore che la copre? Senti che roba, bleargh!
Non senti?
E' gas, stronzo!
E' gas.
Walter tossì e sputò più volte sul pavimento, tentando ancora di rialzarsi, e provando parole impossibili.
- Basta adesso - disse il ragazzo
Adesso basta.
Sputò sprezzante sulla enorme massa stesa carponi, la guardò un momento, e si avviò verso la porta. Per un attimo ancora si voltò a guardare la madre nel ripostiglio, e dentro di sé trovò la consapevolezza che tre persone erano morte in quella giornata normale.
Tirò fuori dalla tasca l'accendino di suo padre, quello che aveva trovato sul comodino vicino al calorifero, lo porse in avanti e guardò ancora Walter, che intanto si era messo seduto, con molta fatica.
E segui il silenzio che precede ogni finale.
- Guarda qua, papà.
E adesso brucia, come il maiale che sei!
"Massì - pensò Walter- non importa, in fondo..."
Ffssshh
Boom



Concezione e realizzazione: Matteo Scarabelli. Un sentito ringraziamento a Blind Ben per lo splendido titolo.

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