La Musica della Vita
di Ettore Gabrielli

C’era un tempo non troppo lontano una bambina chiamata Linia. Lei era figlia unica: i suoi genitori non erano ricchi ma a Linia non mancava mai niente. Le mancava solamente quello che la natura non le aveva dato e che nessuno poteva darle: Linia era cieca dalla nascita, nata con occhi velati di grigio, fissi e senza scopo. Linia non aveva mai visto il mondo ed i suoi colori, però non ne sentiva la mancanza nemmeno quando cercavano di raccontarglielo, perché non riusciva ad immaginare altro mondo al di là del suo, dove al posto di suoni e rumori ci fossero luci, colori. Per lei era fatto di quelli tutto il mondo. Ed era un mondo bellissimo. Con gli anni Linia aveva imparato a riconoscere suoni che gli altri nemmeno sentivano o credevano esistessero. Riconosceva le persone non solo attraverso la voce o i passi, ma anche sentendo lo sfregarsi dei muscoli l’uno con l’altro, lo sbattere delle palpebre, il frusciare di un capello dietro l’orecchio. Sapeva capire se una persona era triste dallo scricchiolio delle ossa, o da come inghiottiva la saliva; indovinava i pensieri di un’altra interpretando i movimenti del suo stomaco, il battere dei denti tra loro. Tutto per lei era ricollegabile ad un suono. A volte si esercitava a camminare senza bastone per le stanze di casa, affidandosi solamente ai rumori, piccoli e nascosti, che questa le forniva come punti di riferimento. I mobili erano vecchi e dal masticare dei tarli dentro le loro piccole gallerie sapeva com’evitarli, anche se la cucina con i suoi mobili nuovi la metteva spesso in difficoltà: ciò che le dava più problemi era la piattaia di freddo metallo, che riusciva a sentire solo se un poco d’acqua rimasta sopra lentamente scendeva verso lo scarico tracciano strade di note lente. Per il resto si scopriva a camminare abbastanza lestamente senza l’aiuto di nessuno, anche se talvolta si ritrovò a massaggiarsi un livido fresco, od a raccogliere i cocci di qualche vaso urtato nella fretta (non che non avesse sentito il rumore del respirare e abbeverarsi dei fiori, ma si distraeva a volte nell’ascoltare invece i ragni che tessevano le tele o le mosche che si corteggiavano con strani voli...). I suoi genitori dovevano lavorare tutto il giorno per mantenere la loro bambina, ma difficilmente Linia era sola. Parlava con i gatti che venivano sotto la sua finestra, e riusciva quasi a capire quello che le dicevano: i loro bisogni, se avevano fame o voglia di coccole, erano oramai facili per lei da capire, così come sapeva bene riconoscere un gatto dall’altro per la sua voce miagolante e le fusa, o per gli agili passi. Talvolta però non riusciva ancora a capire cosa volessero dirle, e un paio di volte si era presa degli sgraffioni inaspettati da alcuni gatti; c’era rimasta molto male, sembrava che questi si divertissero a confonderla, a prenderla in giro. Sapeva che non poteva essere così, perché erano animali buoni, ma a volte continuava a non capirli. Poi c’erano i passerotti e gli altri uccellini cui gettava le briciole, e che per lei gorgheggiavano le melodie più pure e belle, e le facevano complimenti e ringraziamenti per il cibo che dava loro con fischi e note liete e svolazzanti, leggere e libere. Un giorno Linia scoprì, non senza sorprendersi, di riuscire a capire se una persona stava poco bene. Capitò con sua madre, quando senti chiaramente i bronchi di lei che non si muovevano più come prima, la gola che raschiava un poco quando l’aria vi passava dentro; così capì poco prima che arrivasse l’influenza che sua madre si sarebbe ammalata. Piano piano la voce si sparse, e la gente iniziò a chiederle aiuto, perché erano persone semplici che a volte non capivano o non si fidavano di medici venuti da fuori. Oltretutto amavano Linia, che era stata adottata un po’ da tutto il paese, e della quale si fidavano ciecamente. Così i malati le venivano portati a casa, chiedendole cosa ci fosse che non andasse in loro, il perché del loro dolore, del loro male misterioso. Non era facile per Linia, anche perché erano molti i rumori che udiva, nel corpo del malato e nella stanza intorno a lei, addirittura fuori della finestra le giungevano suoni che sembravano fatti apposta per distrarla, confonderla. Con il tempo e l’esercizio imparò a distinguere i suoni ed ad isolare solo quelli che le interessavano. Ascoltava tutta intenta i rumori del corpo del malato o della malata, aggrottava la fronte cercando di capire da dove venissero le note stonate nella melodia dell’organismo, e poi forniva una sua diagnosi. Anche se di medicina non ne sapeva molto ogni volta si faceva capire da chi veniva da lei. A volte il fegato che si contraeva più forte del normale, o un polmone che non lavorava quanto l’altro, od il cuore che affannava un poco, o qualche vena in cui il sangue scorreva a fatica. Capitava di quando in quando che se ne stesse ad ascoltare più a lungo del solito, che chiedesse più volte il silenzio nella stanza, che arrivasse addirittura a fare accomodare tutti fuori per meglio ascoltare, quando voleva essere certa di quello che comprendeva dal linguaggio segreto del corpo. Spesso dopo rimaneva in silenzio, senza parlare, e una lacrima scendeva dalle sue ciglia, dai suoi occhi spenti; allora tutti sapevano che non c’era nulla da fare, che quello che Linia aveva sentito era il canto della Morte. Nessuno tra i pazienti accoglieva mai la notizia con il dolore che manifestava davanti ad un medico. Amavano Linia e sapevano quanto lei soffrisse per la loro sorte. Sembravano accettarla più facilmente dai silenzi della bambina che dalle parole di un dottore. Fu così che Linia capì prima di tutti quando per i suoi genitori giunse l’ora di abbandonarla per l’ultimo viaggio. Sentì chiaro dentro di loro la musica che s’incrinava, gli spartiti del loro respiro sempre più lontani e deboli. Se n’andarono così, quasi insieme. Linia ricordò poi, anni dopo, come per settimane non riuscì a sentire nessun altro rumore tranne quello del suo cuore, che batteva lento e stanco. Ma così come in quegli occhi velati dal destino non potevano dipingersi la tristezza e l’amarezza, così Linia continuò la sua vita amandola e assaporandola come solo lei sapeva fare, godendosi l’infinita melodia del creato. La sua vita scorreva veloce, e da bambina si svegliò un giorno ragazza, già quasi donna. Tanto era l’affetto che in paese nutrivano per lei che le avevano trovato un lavoro. Curiosamente fu suo il posto di custode della biblioteca, lasciato vuoto dal precedente bibliotecario andato in pensione. Questi pure veniva tutti i giorni per aiutare la ragazza nel suo nuovo lavoro, oramai incapace di staccarsi dal suo lavoro di una vita. Linia imparò a conoscere la disposizione d’ogni libro nei polverosi scaffali della biblioteca, imparò a riconoscerli, e, non riuscendovi solamente dal rumore dello sfogliare delle pagine, si esercitava a distinguerli anche dal loro odore, dal loro peso, dal toccarli. Aveva mani lisce e affusolate, e i suoi polpastrelli sensibili impararono a leggere presto i titoli in rilievo dei libri, o a fare differenza in base alla rilegatura od alla copertina. L’anziano custode ogni giorno le leggeva un libro nuovo, con una velocità dettata dall’esperienza, dalle lunghe giornate passate senza altra compagnia che quella delle storie. Linia ascoltava rapita le gesta di paesi lontani, facendosi spiegare dal vecchio tutte le cose che non capiva. Spiaceva a Linia di non poter leggere da sola tutti quei libri. Si esercitava a riconoscere le lettere con il tatto, ma erano troppo piccole perché riuscisse a farlo. Come avrebbe voluto che il suo tatto fosse sviluppato quanto il suo udito! Nella biblioteca aveva imparato a fare suoi tutti i suoni che avevano casa tra gli scaffali ed i corridoi. L’ammuffirsi delle pagine dei libri più vecchi e dimenticati, le copertine che sfregavano tra loro impercettibilmente quando si assestavano sulle mensole, il passeggiare veloce ed inquieto dei ragni e lo zampettare frenetico dei topi. Nonostante il vecchio bibliotecario insistesse per cacciare i topi, accusati di mangiare libri a colazione, pranzo e cena, Linia si rifiutò sempre di mettere trappole o veleni. Aveva imparato ad apprezzare la vita e le avventure dei topolini in giro per i libri, delle passeggiate tra quelle pagine che lei percorreva con la fantasia. La affascinava pensare a quei topolini che correvano lungo le isole dei racconti di pirati, al di sotto degli oceani e sulle più alte montagne, tra le nobili corti d’Europa o tra le giungle dell’Africa nera. Per fare felice l’anziano amico prese con sé un gattone grigio che sembrava fatto apposta per sterminare topi. Lei a dire il vero aveva capito subito dal suo respirare quanto questi fosse in realtà pigro ed inoffensivo; egli, infatti, ben presto prese possesso di un angolo della biblioteca lasciando in pace topi e scarafaggi, ed andando di quando in quando ad ingrassare e fare fusa sulle ginocchia della padrona. Linia era felice, questo lo sapeva bene. Ma a volte si chiedeva cosa era quel sospirare un po’ deluso che aveva a volte, quel battere più rapido del cuore quando ascoltava certi romanzi, che le raccontavano di chiari di luna, di parole sussurrate nelle orecchie, di baci sulle labbra tremanti... anche il vecchio custode capì che qualcosa nella ragazza era cambiato, quando lei, innocentemente come sempre, gli chiese se pensava che lei fosse bella. Il custode si fece silenzioso, non perché non sapesse rispondere (Linia era certamente una bella ragazza, con il sorriso che le ricamava un viso delicato, alta e fine come un alberello d’ulivo, ed altrettanto fiera), ma perché, nella sua esperienza, capì che la domanda nascondeva ben altro di una piccola curiosità. Così la mattina dopo si fece accompagnare da una sua nipote. Lasciò sole le due ragazze e non seppe mai, né volle sapere, cosa si dissero, ma quando tornò stavano parlando amorevolmente, con le mani nelle mani, sorridevano. Il giorno dopo Linia arrivò più tardi, ma con un vestito azzurro cielo, con i capelli pettinati ad arte, ed un sottile strato di trucco che la faceva sembrare più luminosa del solito. Da quel giorno iniziò ad uscire più spesso, a farsi nuove amicizie. Passò per i primi amori, le prime delusioni, pianse d’amore e ne rise tra gli scaffali della biblioteca. E sempre, sempre, si beava ad ascoltare, estasiata, il suo cuore ed il suo corpo che, lentamente ma ostinatamente, crescevano. Ogni tanto tendeva l’orecchio, sperando di sentire il suono del suo domani, ma non sentiva nulla, e ne era felice. Per lei ogni nuova melodia che la vita le avrebbe riservato sarebbe stata una musica nuova, una sorpresa. E nessuno spartito poteva contenere una musica così bella.



Concezione e realizzazione: Matteo Scarabelli. Un sentito ringraziamento a Blind Ben per lo splendido titolo.

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