Il Canto Dimenticato
di Ettore Gabrielli

Nel bosco il verde foglia filtra la luce del sole caldo che splende tra qualche sparuta nuvoletta bianca. La macchina sta ferma sotto un albero, mentre il motore si raffredda e tira sospiri di sollievo dopo una lunga strada, un poco scocciato delle ruote fangose per quel percorso accidentato. L’uomo e le ragazza si allontanano dall’auto dopo essersi premuniti di lasciarla all’ombra, per timore del calore che potrebbero trovarvi dentro al ritorno. Si tengono per mano, lui sembrerebbe suo padre se i loro corpi non camminassero così vicino e non si sfiorassero a tratti, impercettibilmente, quasi la loro pelle non volesse allontanarsi troppo. E’ fresco lì sotto, e la ragazza ha qualche brivido sotto la leggera camicetta, dalla quale si intravede il bianco reggiseno sui suoi seni da bambina. L’uomo ha una maglia con una scritta americana, e i pantaloni corti. Muscoli sul suo corpo belli e forti, guizzano come pesci mentre si muove per evitare una radice che sporge o per abbassare la testa di fronte ad un ramo un poco più intraprendente cresciuto più in basso. Tra gli alberi si fa largo una radura, dove i giganti del verde hanno paura a spargere i loro semi e dove solo l’erba cresce rigogliosa e selvaggia. Dietro un ultimo albero si spalanca ai loro occhi come una visione, la ragazza apre la bocca ornata da una linea di rossetto in un muto grido di stupore, l’uomo sorride e le stringe un poco più forte la mano. Di fronte a loro in quel piccolo regno senza alberi decine e decine di uccelli, di tutti i colori e le razze, stanno in silenzio, chi sui rami ai margini della piccola piana, chi su qualche sasso, chi nascosto da un ciuffo d’erba verde. La ragazza non credeva ci fossero così tante specie diverse in quel boschetto. Ma la mancanza di rumore è per lei incredibile, ed anche se non c’è più la fresca ombra a tenere lontani i raggi del sole dalla sua pelle sente ancora freddo. L’uomo accanto a lei la guarda da sopra la spalla. "Non aver paura...". E la porta nel mezzo dello spiazzo verso un grande masso dal quale gli uccelli stanno distanti. Ma nonostante i due passino loro in mezzo non scappano, al massimo infastiditi dalla loro presenza saltellano più lontano e beccano distrattamente verso un verme sfortunato. "Ma non sanno volare?" chiede in un sussurro la ragazza, il cui cuore batte un nuovo ritmo nel suo petto. "Non ne hanno bisogno, sanno che non faremo loro del male. Ti racconto una storia..." e si siede sopra il masso nonostante lo sguardo infastidito di un merlo nero lì vicino. Questi uccelli avevano tanto tempo fa una padrona. Ma più che una padrona si sarebbe detto un’amica, una compagna. Si chiamava Maria. Era una ragazzina sola in una grande casa ai margini del bosco. Viveva con il vecchio padre e la matrigna, ma era come se vivesse sola. Aveva una grande capacità: parlava con gli uccelli che tutti i giorni mangiavano davanti la finestra di casa sua. E non parlava semplicemente per il bisogno di raccontare la sua solitudine al nulla, ma capiva quello che gli uccelli le dicevano ed erano per lei la compagnia che non aveva dalle altre persone. Li ascoltava cinguettare del cielo alto sopra gli alberi, del mare che li chiamava in certi periodi dell’anno, dello splendere delle piume delle proprie compagne; raccontavano in note il pigolio dei loro piccoli che uscivano dalle uova, la paura per il rombo dei fucili dei cacciatori, le fughe dai gatti e dagli altri predatori; il loro canto descriveva la gioia del vento che passa nelle orecchie e le ali che si spiegano e lo attraversano cullate dall’aria. Furono gli uccelli a raccontarle della loro radura, una radura magica che teneva fuori i loro nemici e dove gli uccelli si ritrovavano per cantare insieme del miracolo di un’altra giornata vissuta volando, perché non c’è momento più triste per un uccello che il non poter più alzarsi in volo e lasciarsi la dura terra lontana. Che concerti si tenevano la sera mentre il sole calava dietro gli alberi prima di andare a dormire. Maria era l’unica persona che mai fosse stata fatta partecipare alle loro riunioni. Ma quella radura che proteggeva gli uccelli non proteggeva dal male anche la bambina. Venne un orco un giorno. Era mascherato con la pelle del cavaliere, con lo sguardo del principe azzurro. Ma in mano aveva una lunga lama, sul manico sette tacche nere e profonde, una per ogni persona che aveva ucciso. Maria non vide il mostro sotto la maschera, nonostante gli uccelli cercassero di avvertirla e cantassero le loro note più acute e disperate. Maria non li ascoltava più, non sapeva più capire quello che le dicevano. E l’orco le rubò, per sempre, la sua giovane vita in questa stessa radura, forse su questa stessa roccia. Da quel giorno nessuno degli uccelli del bosco ha più cantato, perché non c’era più gioia per loro da cantare. La ragazza dà ora le spalle all’uomo seduto sul masso. Si stringe con le fini braccia pallide le spalle, quasi a racchiudersi in se stessa. Forse trema un poco. L’uomo si alza con un movimento leggero dei suoi muscoli, le mette un braccio intorno alla vita e la trae a se. "Non fare così, è solo una piccola stupida storia inventata da qualcuno. Non c’è niente di vero. E poi ci sono io a proteggerti, no?" La ragazza gira un poco il collo sottile e lungo, e guarda il bel volto deciso dell’uomo. Abbozza un sorriso, poi chiude gli occhi e si appoggia al suo largo petto, con la testa inclinata all’indietro. Lui le bacia la fronte. Il braccio scuro abbronzato dell’uomo scivola dietro la propria schiena, sotto la maglietta con la scritta americana. Sotto stringe una lama lunga e fredda. Sul manico otto solchi scuri come abissi. Un volo di piume e colori, in un incredibile silenzio. Solo lo sbattere di decine di ali nel vento. Si alzano in volo come esplosioni di fuochi d’artificio nelle feste di paese.



Concezione e realizzazione: Matteo Scarabelli. Un sentito ringraziamento a Blind Ben per lo splendido titolo.

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