di Barbara Borlini e Francesco Memo
disponibile esclusivamente in rete

Non è facile recensire un esordio assoluto. Soprattutto quando non è che un "pre-esordio" in rete, che non raggiunge né le librerie né le fiere, una di quelle cose che verranno magari riesumate fra dieci anni, quando l'autore sarò diventato il prossimo "caso Ortolani". In casi come questi ogni strumento di critica è impreciso e spuntato.

Che dire, allora, de La Rosa Sepolta? Innanzitutto che è chiaramente un inizio, una prova, un tentativo in fieri: si vede dalle prime tavole, indecise nel tono e nel ritmo; si vede dal tratto, che col procedere della serie corregge il tiro ora da una parte ora dall'altra, come artiglieria insegna; si vede dalla storia e dai personaggi, che solo dalla terza parte cominciano ad assumere tratti meno fumosi e stereotipici.

Indubbiamente il punto di forza de La Rosa Sepolta è la sceneggiatura. Pur tra le incertezze soprattutto di ritmo, si nota la strenua resistenza allo scivolare nello stereotipo nipponico a cui il fumetto in parte si ispira (nonostanti certi svoli da ronin del protagonista) e soprattutto la costruzione passo dopo passo di un ritratto verosimile e sentito di un anonimo dopoguerra, italiano di lingua, di paesaggi e di onomastica, ma tristemente universale nei toni, negli atti, nelle piccole e grandi tragedie. Un po' meno sensibile l'alchimia tra i personaggi, che pure comincia a decollare verso il terzo-quarto "numero" con l'ingresso di figure sommessamente eroiche e di vecchi paesani con un ché di Guareschi o di Benni.

Mi lascia perplesso il tratto. Innanzitutto per il naturale contrasto tra la matrice nipponica dei disegni e lo svolgersi della storia che di nipponico (a parte, si diceva, qualche sparata da samurai di Kurosawa) ha ben poco - ma questo è negli occhi e nel cervello di chi legge. Sulla carta, o meglio sui pixel, resta invece una certa disomogeneità di stile, un voler la botte piena e la moglie ubriaca, o più probabilmente una giovane mano d'artista ancora incerta e strattonata da "maestri" troppo diversi: si passa dal minimalismo-manga di certi personaggi al tutto tondo quasi caricaturale di certi altri, agli inspiegabili, spigolosi occhi "alla Ryoko Ikeda" di un solo singolo personaggio.

Le opere prime (le vere opere prime) sono terreno difficile. Vanno lette e recensite con cautela, e senza la mannaja a portata di mano. E con tutta la cautela del mondo mi sento di poter dire che c'è un spazio per crescere, migliorare, osare magari un'uscita autoprodotta, se non con la prossima storia con quella successiva. Servirà un po' di pazienza e tanto lavoro, ma i numeri sembrano esserci.

recensione di Matteo "Abe Zapruder" Scarabelli

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